Il tempo: all’imbrunire di un giorno del 1934 o 1935. Il luogo: un angolo del grande piazzale del Foro Boario attorniato a est dai Magazzini Generali, a sud dal Mercato Ortofrutticolo all’ingrosso, la cui entrata principale dava su via Tommaseo, mentre il binario del treno entrava proprio dal piazzale del Foro Boario. A ovest il Consorzio Agrario, anche questo attraversato dai binari del treno. A nord c’era un deposito di carburanti gestito da “Ciccio benzina”. Il piazzale era attraversato dai binari del treno che rifornivano i quattro siti.
1. I Magazzini Generali servivano da centro di smistamento delle merci, le più diverse, per tutte le attività commerciali e produttive della città attraverso un servizio di trasporto a mezzo di carri trainati da cavalli.
2. Il Mercato Ortofrutticolo all’ingrosso di frutta e verdura era destinato solo ai fruttivendoli. La vendita dei prodotti era fatta al mattino molto presto, alle nove era praticamente finita. Assistere allo svolgimento delle contrattazioni tra i grossisti e i dettaglianti era sorprendente, il più delle volte la cosa si svolgeva a gesti, sembrava la recita di un rito, è evidente che si trattava di consue- tudini che si perdevano nella notte dei tempi. Già alle sette del mattino cominciava a uscire in via Tommaseo una coda di carretti trainati o spinti a mano per raggiungere le postazioni di vendita: le Piazze, delle Erbe e dei Frutti, i mercatini rionali, i negozi sparsi in città e i molti ambulanti che magnificavano la loro merce con grida tra le più fiorite.
3. Il Consorzio Agrario per le merci agricole, fieno, sementi, concimi, attrezzature ecc.
4. Il Deposito Carburanti che aveva dei grossi serbatoi nei quali venivano stivate benzina, nafta e oli diversi per uso industriale.
Il servizio ai clienti, al dettaglio, era effettuato da due piccole autobotti, appunto da “Ciccio benzina”. Attorno a questo mondo si potrebbero raccontare molte storie, devo tornare però a quell’angolo del piazzale con cui ho aperto questo mio scritto. Ma non posso non ricordare che quest’angolo è quello in cui ho sentito suonare le sirene che festeggiavano la fine della guerra di Etiopia.
La Pioppa
Proprio in quest’angolo si ergeva maestosa una Pioppa. Veniva chiamata al femminile per la sua possanza (mamma, ma cos’è la possanza?). Nei dintorni non c’erano altri alberi di quell’altezza, per cui era diventato il luogo di ritrovo più sicuro per i passeri della zona, specialmente verso l’imbrunire per il rito della passeraia.
Vorrei dare una mia interpretazione di questo ritrovarsi prima del calar del buio. Penso che i passeri si raccontino i fatti più salienti della giornata: lo scampato agguato del gatto mentre mangiavano nel pollaio dei Franco, o la schiusa delle uova di qualcuno del gruppo, oppure lo spavento allo sparo del fucile mentre becchettavano nel campo di grano, o semplicemente i più giovani si facevano la corte. Ho pensato anche avessero già inventato la moda dello spritz, ma forse i loro costumi non erano già così degradati.
A guardare la Pioppa in quei momenti era tutto un frullare di foglie con qualche rara uscita di qualche passero dal folto che rientrava immediatamente per non perdere il filo del discorso. Invece il rumore era davvero impressionante. Mi domandavo come facessero a capirsi tra loro. Tutto questo durava una mezz’oretta, poi improvvisamente calava il silenzio quasi totale. Con un frullare di ali, a gruppi, i passeri si allontanavano dall’albero in tutte le direzioni, evidentemente per tornare ai nidi per dormire.
Una sera ero sul cortile di casa, che distava una cinquantina di metri dalla Pioppa, e ho sentito due spari, c’era “Ciccio benzina” con la doppietta ancora punata. E dal fogliame un fuggifuggi in tutte le direzioni mentre alcuni passeri colpiti cadevano verticalmente. Mi facevano pena, non tanto perché la caccia fosse ritenuta una pratica crudele anzi era nell’ordine delle cose della vita, ma perché le fucilate avevano colpito un momento ludico. Forse l’ho ritenuto un tradimento.
El Pomaro Vecio
Ricordo anche la passeraia del Pomaro Vecio. Sono in casa di mio nonno ‘Moro Maretto’. A ridosso della casa sul lato ovest inizia il vigneto, luogo di scoperte: nidi, l’unica vigna di uva moscata nascosta tra i filari di merlot, l’albero dei amoi, prugne gialle dolcissime e molto altro ancora.
In testa al vigneto c’era un viale di ingresso ai vari filari, detti raji (raggi). Questo viale confinava da un lato con un profondo fossato, sull’argine del quale erano piantate delle vigne potate in modo che il viale fosse un tunnel ombroso. Era il luogo dove nei momenti più caldi della giornata ci si rifugiava per la siesta. In testa a un filare sul bordo del viale c’era il Pomaro Vecio, un albero di mele renette di una bontà unica. Era questo il posto di ritrovo, per giocare e, alla domenica, di riunione delle zie per chiacchierare. Ricordo che in quell’occasione si faceva un lavoro un po’ strano.
Mia cugina Delia, che di lavoro faceva la sarta, portava a casa delle calze usate di rayon, che tagliavamo a striscioline e con queste facevamo delle treccioline che a loro volta venivano lavorate con i ferri da calza per farne tappetini scendi letto. Ricordo anche che proprio sotto il Pomaro Vecio la Delia ci raccontò della sua partecipazione alla grande sfilata in Prato della Valle per la visita a Padova del Duce. Lei era in divisa da giovane fascista. Durante il racconto sembrava di vivere un’avventura. Molti anni dopo mi sono reso conto di quanto la vita, anche nelle campagne, fosse condizionata dal regime.
La chioma del Pomaro Vecio emergeva in altezza al di sopra del vigneto, pertanto era un facile riferimento per i passeri per il ritrovo serale. Qui però c’era la Gigia, la vecchia gatta di casa, madre di generazioni di gatti che giravano nei dintorni. Il cibo di questi gatti non erano scatolette o croccantini ma topi grandi e piccoli, talpe e uccelli, qualche lucertola, uova nei nidi. Un bel po’ prima dell’inizio della passeraia la Gigia si installava alla prima biforcazione dei rami del Pomaro Vecio e aspettava. Non ho mai saputo l’esito di queste sue attese. Il comportamento dei passeri di campagna era identico a quelli di città descritti precedentemente. È chiaro che sono consuetudini geneticamente consolidate.
A Caltanissetta
Un’altra passeraia a Caltanissetta. Arriviamo in albergo, in centro città, proprio all’imbrunire. La finestra della camera dava sulla via principale, proprio di fronte c’era un lungo e alto muro di massi ricoperto di edera, al centro un grande portale ad arco, anche questo ricoperto di edera così rigogliosa che for- mava rami d’albero. All’interno un magnifico giardino e una bella villa.
Il luogo della passeraia era il grande arco d’entrata al giardino. Sorprendente il fatto che pochi metri più in basso ci fosse la strada con il traffico di un centro città e più invadente ancora lo “struscio” sul marciapiede di centinaia di giovani vocianti. Sembrava una gara con i passeri a chi gridava più forte. Il mattino seguente di buonora si ripetè di nuovo il rito della passeraia, per un tempo più limitato. Evidentemente i passeri non erano riusciti a raccontarsi tutto la sera precedente.
Toni Schiavon, “Mi sono sbottonato!”, libro primo, pag. 62-64
Sabato mattina. Ho spostato il letto della mia stanza a Milano sotto la finestra, i termosifoni non servono più, mentre la vicinanza all’esterno forse un po’ si. Di notte chiudo la tapparella elettrica, ma alla mattina, ancora in dormiveglia, premo il bottone per alzarla, e la stanza, che affaccia a Sud, si illumina di sole. Credo sia un sole stanco, anche un po’ finto. A Milano il sole è vero solo in Darsena, con una birra in mano e le risate degli amici. Ma in dormiveglia, con gli occhi chiusi, mi immagino di essere in Darsena, o sulla Martesana, a godere della primavera timida.
E così, per qualche minuto ogni mattina, vivo la gioia della normalità, e pazientemente aspetto.
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È una specie d’amore vero?
Come la tazza contiene il tè,
Come la sedia si regge gagliarda sulle quattro gambe,
Come il pavimento riceve la suola delle scarpe.
O le dita dei piedi. Come la pianta dei piedi conosce
dove si trova.
Stavo pensando alla pazienza
delle cose comuni, come i vestiti
che aspettano rispettosamente negli armadi.
E il sapone che si scioglie quietamente sui piatti,
E gli asciugamani che assorbono l’umidità
dalla pelle della schiena.
E l’amorevole ripetizione delle stelle.
E cosa, infine, è più generoso di una finestra?
Pat Schneider
grazie Marta