Libro I Mi Sono Sbottonato!

India, 2013-2016

24 Aprile 2020

Ho collaborato con un’azienda in India e ho fatto quindici viaggi di lavoro in tre anni, distanziati tra loro di un paio di mesi. Altri quattro viaggi in India li avevo fatti in anni precedenti e quanto racconterò lo avevo già intravisto.

2013, in Jindal

Manovali o artisti?

Descriverò intanto un fenomeno che non riesco a collocare nella nostra cultura, tra i nostri modi di fare. Arrivato lì per la prima volta, nel 2013, una sera dopo cena, ho assistito casualmente alla discussione del titolare con un architetto sul progetto per la costruzione di un tempio indù. Dopo qualche mese sono iniziati i lavori che durarono un paio di anni. Dell’avanzamento lavori e delle modalità esecutive ho detto in altri scritti indiani, qui mi soffermo a descrivere l’esecuzione scultorea di colonne, portali, finestre, altari.

Trattasi di un lavoro lungo, in quanto l’esteriorità è elemento profonda- mente elaborato. Fogliame, colonne tortili, figure. A mio parere qui da noi sarebbe fatto in seno ad un’officina artistica con maestranze specializzate. Invece ecco quello che ho visto: un giorno è arrivato un trattore che trainava un carro di pezzi di marmo di dimensioni le più diverse, che rovesciò il tutto sul terreno sconnesso, tra cumuli di calcinacci di scarto, di un cantiere edile maltenuto. Con l’arrivo del marmo arrivarono una decina di uomini più o meno anziani e giovani, ognuno con in mano una sportina con qualche scalpello, un martello e un mazzuolo di legno.

Preso posto alla rinfusa per terra nelle vicinanze del cumulo di marmo, senza pulire o riordinare il terreno, qualcuno pianta due paletti di bambù sopra i quali stende una specie di lenzuolo pieno di strappi per proteggersi dal sole, oltre i 40°. Ognuno si prende un pezzo di marmo, lo appoggia per terra, estrae dal sacchetto i tre, quattro attrezzi, un pennarello blu e un foglietto di carta trasparente con sopra dei disegni di fogliame o altro. All’interno dei disegni la carta ha dei fori. Appoggia il foglio sul marmo dove secondo una sua stima deve eseguire il lavoro e con il pennarello traccia i testimoni. Da quel momento il risultato dell’opera è lasciato alla sua fantasia? Non lo so. Ho provato a chiederlo al mio traduttore indiano. È rimasto sorpreso dalla mia domanda. È così perché è così!

L’uomo comincia a scalpellare sul marmo punteggiato qua e là, accucciato sui talloni o a gambe incrociate e chino sul piano del terreno, rimanendo così per ore. Il risultato del lavoro una volta montato è stupefacente: omogeneo, brillante, proporzionato, direi espressivo. In questo tempio non ci sono figure scolpite ma solo elementi floreali.

Ancora una volta ho chiesto all’interprete se gli operai hanno una preparazione specifica, se sono artigiani specializzati e quindi di una posizione sociale elevata. Reazione, ancora di sorpresa, per la domanda. Sono operai di normale livello come i muratori, a volte tramandano l’arte di padre in figlio, e si spostano in gruppo da un cantiere all’altro magari portandosi appresso la famiglia, come già detto per gli operai dei cantieri edili o stradali.

Le domande cui non ho trovato risposta sono: come fanno ad acquisire l’abilità per realizzare lavori così specializzati, che hanno però la stessa valenza di quelli svolti dell’ortolano, il muratore, o il bovaro? Forse hanno la stessa memoria ancestrale degli uomini preistorici, oppure sanno fare ognuno solo foglie di un certo tipo o capitelli specifici e quindi il risultato è la sommatoria di talenti diversi? In ogni caso sono lavori molto belli. Probabilmente è la riproduzione di forme e dimensioni che si ripetono da millenni.

Paese che vai… usanze che trovi!

Nel 2013, durante il mio primo viaggio, mi spostavo da Delhi a Hisar, 160 km, su una superstrada in costruzione. A metà del 2016 era completata fino a Hisar. I tempi necessari di percorrenza inizialmente di quattro-cinque ore furono ridotti a due e mezzo, di cui un’ora in Dehli per fare 20 km. Nel 2013 si attraversavano città e villaggi dove il traffico era sinonimo di caos.

Vorrei raccontare delle condizioni di lavoro nella costruzione di un’autostrada. Mi domandavo il significato di baraccopoli nelle vicinanze di cantieri stradali e di costruzioni edili di grosse dimensioni. Ho chiesto a Deeraj, il mio interprete. Trattasi delle abitazioni delle famiglie degli operai adibiti alle costruzioni, baraccopoli che si costruiscono laddove gli operai lavorano e hanno dimensione rapportata al loro numero.

C’è stato un caso, proprio sul fronte strada dell’azienda in cui operavo, in cui hanno dovuto spostare un muro lungo circa 1 km per poter costruire la seconda corsia dell’autostrada. In pochi giorni il villaggetto raddoppiò con l’arrivo dei muratori che dovevano smontare il muro di mattoni, pulirli, trasportarli di una cinquantina di metri e ricostruirlo. In questo caso vennero utilizzate per i lavori di manovalanza le madri e i figli di tutte le età. Il lavoro era pagato a metratura. Tutto era trasportato con i cesti sulla testa dalle donne: mattoni, sabbia, cemento e malta, con l’aiuto dei bambini.

Dinanzi all’albergo dove pernottavo era in costruzione un centro commerciale di otto piani. Il calcestruzzo per le colonne e i solai veniva portato dal piano terra, dove era preparato, da una lunga fila di donne con il cesto sulla testa salendo su scale a pioli di bambù inclinate di circa 15°, che come un serpentone si srotolava sui vari piani a mano a mano che venivano costruiti. Il ritorno a vuoto avveniva in discesa su un percorso analogo posto parallelo. La sabbia e la ghiaia per il calcestruzzo venivano caricate nella betoniera sempre da una catena di donne che riempivano i cesti con una corta zappa, il manico di circa 60 cm, ma spesso qualcuna il cesto se lo caricava con le mani, evidentemente c’era una sola zappa! Questa situazione è la norma. Il criterio di utilizzo delle donne e dei bambini è sempre lo stesso, anche nelle fasce sociali più elevate, con sfumature difficili da descrivere e da comprendere.

La storia della famiglia Jindal

A questo proposito la mia frequentazione della famiglia Jindal, i padroni dell’azienda, mi ha permesso di osservare tantissime situazioni di vita quotidiana. La villa padronale, con prati, giardini, un grande orto, un prato a pascolo per dieci mucche con stalla annessa e allevamento di vitelli, era gestita da uno stuolo di uomini a presenza fissa. Per la cucina, l’orto, le stalle, il giardinaggio, però, ogni mattina entrava un gruppo di donne che provvedevano alle pulizie e dopo qualche ora se ne andavano, erano precarie.

Facevo riferimento alla zappa dal manico corto: nell’orto, grande come un campo di calcio, è l’unico attrezzo disponibile oltre ad alcune palette come cazzuole, ne ho una come esempio, con le quali smuovono la terra per poi seminare o piantare le verdure. Non una pala, un badile, una carriola, un carro. Il letame viene spostato con i soli cesti in testa con teli di stoffa grezza. Questo nel contesto di una famiglia di industriali con migliaia di dipendenti che gestiscono acciaierie, fabbriche di tubi, una delle quali per tubi inox considerata tra le più grandi dell’India. Ultimamente la famiglia si è proposta di comprare l’Ilva di Taranto. E una delle donne della famiglia è fra le prime dieci più ricche dell’India…

2013, in fabbrica

A Hisar c’è una fabbrica della famiglia che si estende a perdita d’occhio con capannoni, ciminiere, binari ferroviari per l’approvvigionamento e spedizione dei materiali ed è attraversata da un viadotto autostradale di un paio di chilometri, dal quale si vedono le infrastrutture della fabbrica, mi ricorda la Mirafiori di Torino. Nella città di Hisar, due milioni di abitanti, l’ospedale e molte scuole di gradi diversi sono della famiglia. Al mattino sul marciapiede dinanzi il muro di cinta della villa il personale distribuisce il latte prodotto dalle mucche. A mezzogiorno, sempre sul marciapiede, viene distribuito del cibo cotto. Un enorme calderone sobbolle dietro la portineria della villa. Sempre sul marciapiede, sporgente dal muro di cinta, c’è un grande lavello con molti rubinetti dal quale i passanti, poveri, attingono l’acqua raffreddata da quattro grossi frigoriferi posti all’interno del muro di cinta proprio a questo scopo.

Una sera dopo cena io, Neeraj e Deeraj, l’interprete, stavamo chiacchierando sul mio percorso lavorativo. Seduti vicini di sedia avevamo una mano sul tavolo. Neeraj passò le sue dita sulle vene esposte del dorso della mia mano, ero imbarazzato. Mi invitò a guardare due grandi foto di un uomo e di una donna molto anziani. Erano due foto ricordo di defunti con cornici infiorate e, continuando ad accarezzare il dorso della mia mano, mi disse che gli ricordavo suo nonno di cui aveva una memoria speciale, di suo padre non mi ha mai parlato, anche se me lo ha presentato. Suo nonno se non fosse morto avrebbe avuto solo qualche anno più di me.

Mi raccontò l’origine delle fortune della Jindal. Nel 1946 il suo bisnonno aveva dato al figlio allora diciottenne una piccola cifra e lo mandò a Bombay alla ricerca di un lavoro, di una opportunità. Non mi ha detto come e cosa abbia fatto, solo che tornò dopo qualche anno e avviò un’officina. Si sposò, ebbe tre figli che sono ora i contitolari dell’impero Jindal, gestito ora dai loro figli tra i quali Neeraj, che è il più giovane dei cugini e con il fratello gestisce un’azienda del gruppo. In casa Jindal ho incontrato anche amici di famiglia che mi hanno intrattenuto raccontandomi delle loro attività. Uno mi disse di avere navi che utilizza per il commercio del cotone greggio, che è il suo campo specifico e di altri materiali in funzione delle opportunità di mercato.

Sul modo di bere

In India, in località dislocate in tutto il territorio, ho potuto osservare tantissime usanze consolidate. Bere acqua è un’esigenza fondamentale per sopportare il caldo tropicale. Le bottiglie o borracce sono a bocca larga. L’azione del bere avviene per caduta, tenendo la testa alta, a bocca spalancata entro la quale viene versata l’acqua da una certa distanza. Ho provato più volte ma ho rischiato di soffocare. Ho cercato di farmi dire l’origine di questa modalità, ho sempre avuto risposte all’indiana. Si fa così! Quando ho avuto modo di parlare con una persona colta, il mio interprete italiano-hindi, mi ha dato in prima istanza la stessa risposta, completandola poi con l’ipotesi che si tratti di ragioni igieniche. L’operazione l’ho vista fare dai diversi ceti sociali.

L’ananas

Nei mercati delle grandi città come nei villaggi più sperduti ci sono una mi- riade di piccoli negozietti fissi e ambulanti che vendono ogni cosa. Fra queste la frutta e la verdura sono preponderanti.

Per essere consumato l’ananas abbisogna di una preparazione, vista la sua struttura esterna di protezione piena di protuberanze spinose. Con una maestria che sorprende, con pochi colpi di coltello ben affilato, asportano la corteccia con incisioni trasversali che vanno a formare una spirale da un capo all’altro del frutto. Sembra una scultura. A vederli usare il coltello fanno il paio con gli scalpellini che ho descritto all’inizio del mio racconto. Come quelli sono non poco artisti!

Toni Schiavon, “Mi sono sbottonato!” libro primo, pagina 192

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