Cari amici, volevo dirvi le mie impressioni sull’Armenia. Innanzitutto l’aspetto generale del viaggio, o meglio del viaggiare, indipendentemente dal “dove”. Ogni volta il preparare il viaggio è già andare, è già vedere, è già sentire. Le letture, gli itinerari, gli aneddoti, intravedere il divenire della civiltà delle genti è già emozione. Penso che quando le gambe non mi consentiranno più di andare, saprò comunque cercare e trovare luoghi altri, genti diverse, stormire di foglie o tramonti nuovi dove l’animo e la mente vadano fuori dalle costrizioni di tutti i giorni.
Evidentemente ho divagato, vorrei tornare all’Armenia. Paesaggisticamente è senz’altro un luogo tormentato, vuoi per le condizioni climatiche, che per quelle morfologiche: canyon e altopiani brulli, dove vivere è difficile. Ecco dunque un popolo duro, determinato, pronto a morire per la sua identità. Non è disposto a compromessi e lo ha dimostrato soffrendo per questo. Ad- dirittura l’aspetto fisico delle persone è indice di questa determinatezza: li- neamenti marcati, occhi fondi e bui, naso adunco. E, anche nelle giovani donne, dove la dolcezza della gioventù tutto ammorbidisce, si individuano i tratti della determinatezza.
Ho memoria che molti anni fa a San Pietroburgo, allora Leningrado, fui presentato a un gruppo di armeni. Rimasi colpito dagli sguardi di alcuni giovani, così intensi e profondi, dove erano depositate cose che allora non capii ma che adesso vedo nelle vicende, nella sofferenza, nella storia tormentata di questa gente. Da quanto detto diventa quasi ovvio dedurre le architetture forti e sobrie delle loro chiese, dove hanno depositato e nascosto la loro identità ritrovandola dopo ogni evento triste della loro storia: invasioni, deportazioni, espropriazioni della loro terra, che mai dimenticano, infine il genocidio e l’occupazione sovietica che ha tentato in tutti i modi di cancellarne l’identità eliminando un terzo della popolazione, con l’aggravante di avere iniziato da chi pensava, gli intellettuali. Eppure sono rinati, con fatica, ma sono rinati.
Dio del cielo
Lo spunto che riemerge dalla memoria mi viene questa volta dalla lettura dell’articolo di Bepi de’ Marzi pubblicato in “Lungo la strada” di marzo 2011, che racconta della nascita del canto “Signore delle cime” che tanto emoziona a ogni ascolto.
Era l’autunno del 2007, eravamo in viaggio in Armenia, cercavamo i luoghi depositari della cristianità. Eravamo sull’altipiano caucasico alle falde del piccolo Ararat. Seguivamo una delle tante diramazioni della Via della Seta, il passo montano era segnato da un caravanserraglio arabo in rovina. In questi luoghi era arrivato anche Annibale e in seguito i romani, che nelle vicinanze avevano costruito un tempio.
Avvicinandoci sentimmo le note di un coro femminile di canti popolari. Entrammo nella piccola aula del tempio circondata di colonne dai capitelli corinzi. Era commovente ascoltare le armonie di quelle otto ragazze. Dopo una decina di canti intonarono: “Dio del cielo, Signore delle cime…” in italiano: l’impatto emotivo su di noi fu incredibile, più di qualcuno aveva gli occhi umidi.
Riflettevo sul fatto che, in un luogo così lontano, luogo di civiltà e di religioni le più diverse, luogo di transito di popoli dall’origine dell’uomo, luogo quindi di osmosi, gli uomini, tutti gli uomini, sono fratelli e vivono le stesse emozioni per il bello a tutte le latitudini e in tutti i tempi.
Toni Schiavon, “Mi sono sbottonato!”, libro primo, pag. 157