Don Nervo, sul filo della memoria
Don Giovanni lo vedevo alla messa pomeridiana della domenica in Duomo. Da tempo ormai aveva difficoltà a muoversi, a coordinare un po’ la voce però la sua omelia restava comunque intrisa di fede e carità, non era aulico, ma vicino al cuore per la sua consuetudine con i poveri. Un giorno l’ho incrociato in piazza, mi sono avvicinato per salutarlo, certo non poteva ricordarsi di me, l’avevo frequentato sessant’anni prima! Accennai ad alcuni ricordi di quei tempi, mi sorrise, ci salutammo.
Vorrei dire degli incontri che lui, giovane prete, ci proponeva. Il luogo era la fabbrica, un ambiente di centinaia di operai, con una presenza giovanile molto alta, dai quindici anni in su. Ci riunì nel patronato della Chiesa della Pace, un gruppetto per organizzare in seno alla fabbrica dei gruppi di Azione Cattolica, suddivisi nei vari reparti tanto da farmi fare una piantina dello stabilimento per inserire i nomi dei possibili componenti dei vari gruppi. Era animato da entusiasmo, talento e iniziativa, doti che avrebbe poi dimostrato con la sua opera: fu infatti fondatore e primo presidente della Caritas. Di questo periodo ricordo che facemmo una gita in laguna, a Campagna Lupia, in una di quelle palafitte di pescatori, a nuotare, a mangiare pesce e contemporaneamente ad ascoltarlo, dibattere, confidarsi, fare progetti. Il servizio militare prima e le vicende della vita poi ci divisero. Rimane però il ricordo. Un ragazzo di allora.
Alfredo Merlin (detto Merlin pico-o)
Agosto 1950, un lungo rettifilo di una polverosa e assolata strada tra Cortona e il lago Trasimeno. Protagonisti, una ventina di scout tra i 17 e 20 anni, la meta, Roma, passando per Assisi, lo scopo, l’Anno Santo. Quanto dirò qui di seguito è tratto dalla descrizione di un memorabile viaggio di un gruppo di ragazzi.
Camminavamo sul ciglio di una polverosa strada tra Cortona e il lago Tra- simeno. Procedevamo in fila indiana. Il sole picchiava, anzi bruciava dall’alto e dal basso per il riverbero del ghiaino. Si sudava, la divisa scout di quei tempi non era certo di lino leggero, bensì di ruvida tela e il cappellaccio a larghe tese era di spesso panno. Lo zaino, residuo dell’esercito così come gli scarponi, erano pesanti e non certo traspiranti. Grazie appunto agli scarponi alcuni dei ragazzi dovettero proseguire in treno per le vesciche. Vista da lontano la fila era tutt’altro che dritta, bensì dondolante, spaiata, disarticolata a causa della fatica, il caldo, il mal di piedi. L’ho potuta vedere perché per un po’ ho perso il contatto e quindi nel tempo, piuttosto lungo, per il rientro, l’ho osservata.
Quel giorno c’era aria di ammutinamento anche per un fatterello singolare. Si era affiancato un camion da ghiaia vuoto e il camionista ci ha chiesto se volessimo salire. Abbiamo risposto che noi volevamo andare a piedi! Faccio fatica a descrivere la faccia sorpresa dell’uomo. Eravamo sotto mezzogiorno e alla sete si era aggiunta la fame. L’armonia del gruppo era davvero precaria. E qui la svolta: la regione che attraversavamo è intrisa di francescanesimo per cui frequenti erano i riferimenti a San Francesco e ai Francescani. Ed ecco l’invenzione, l’allegra intuizione di Merlin pico-o: ogni volta che qualcuno avesse pronunciato San Francesco, i Francescani, i luoghi del francescanesimo, tutti avremmo dovuto toglierci il capello e quindi rimetterlo. Da quel momento tutto cambiò, non certo la fatica, i disagi, ma l’umore: l’allegria sostituì il malumore.
Armando Merlin
Vogliamo ricordarlo come l’amico della vita. I primi incontri sono degli anni precedenti la guerra. Il ricordo di quando con Alfredo veniva a portare il “Vittorioso” e con l’occasione le corse con la biciclettina dei miei vicini di casa. La convivenza in patronato, qualche battaglia tra rioni, la distribuzione del pane del santo, le lunghe ore di gioco. Le adunate del sabato fascista con i mai dimenticati sfottò ai gerarchi a sottolineare l’umorismo dei Merlin. Più avanti, dopo il 1946, le battaglie elettorali e ancora il sodalizio per i canti di montagna. Il viaggio a Roma per l’anno santo fonte di aneddoti umoristici. A seguire una continua frequentazione familiare. Memorabili le vacanze estive per molti anni in montagna, un gruppo di famiglie degli amici di sempre, piene di canti e convivialità.
Sono solo tenui tracce di una vita insieme che va ricordata con la vicinanza, in qualche modo intima, degli ultimi giorni. Con te e Alfredo se n’è andata una parte di noi.
Toni Simionato
Mi è stato chiesto dagli amici del Masci di ricordare per loro Toni. Io sono in una posizione particolare nei confronti di Toni in quanto scout ma anche cognato. Inoltre ho avuto Toni come educatore sia pure per breve tempo. Partendo dal rapporto parentale posso affermare che Toni è stata la figura del “saggio” che espresse pareri e giudizi sì con poche, anzi pochissime parole, ma soprattutto con l’esempio.
La cosa più significativa che voglio ricordare è la sua presenza nella formazione mia e di tanti amici nel periodo della pubertà. Era appena finita la guerra. Eravamo ragazzi e abitavamo in una zona tra le più povere della città. Uscivamo da tempi incerti e difficile si presentava il ritorno alla normalità. Alcuni ex scout del 1928, fra i quali Toni, “scoprirono i cimeli” come diceva una canzoncina del 10° Reparto Montegrappa. Ci raccolsero, ci misero insieme e diedero vita al risorgendo Asci. Seppero darci entusiasmo e con questo ci inculcarono quei valori etico-morali-sociali che ancora oggi cer- chiamo di mantenere. Alcuni di questi “tosi” sono qui oggi per ricordarlo anche per chi non c’è più.
Successivamente si è trasferito a Vicenza senza per questo interrompere quel legame con lo scoutismo diventato ormai modo di essere che lo ha portato a livello nazionale nella costruzione del MASCI. Nel MASCI di Padova ha avuto, sempre accompagnato dalla Cesca, una frequentazione molto attiva in particolare per l’apporto di ricerca al rinnovamento del metodo scout per adattarlo alle mutate condizioni della società privilegiando i rapporti con la fede.
Per questo ritengo Toni, con pochi altri educatori come Toni Franceschini, Milani e Cesare, i padri della nostra formazione giovanile. Per questo il nostro grazie “e arrivederci un dì”.
Il coro
All’interno del reparto scout il canto era elemento importante, insieme alle altre attività, per realizzare l’obiettivo di “voler lasciare il mondo un po’ migliore, anche poco poco, di come l’avevamo trovato”.
C’erano canti di squadriglia e di reparto, ma volevamo fare qualcosa di più: un coro di canti di montagna strettamente legati ai canti dei soldati della Prima Guerra Mondiale. Non erano canti marziali bensì di sofferenza, di morte, di nostalgia. Una simbiosi di emozioni. Per gli scout la montagna è la più ovvia e naturale palestra per le attività volte tutte a preparare alle fatiche del vivere nell’età adulta.
Cesare Lotto si inventò maestro del coro, invitammo i fratelli Merlin del clan di San Francesco, si accodarono anche non scout tra cui Ennio Visentin, compagno di tanti viaggi. Non era importante conoscere la musica o avere voce intonata, avremmo imparato. L’importante era stare insieme. All’inizio si tentò con una commediola musicale, residuo di esperienze teatrali di Cesare, subito fallita. Non era cosa per tutti.
Iniziato il percorso con i canti di montagna l’entusiasmo ci prese la mano. Facevamo tre prove settimanali di sera in una sala del patronato. In poco tempo ci siamo ritenuti pronti ad affrontare una platea. Comunque ogni occasione era buona per cantare. All’uscita dalle prove, sulla mezzanotte, sotto i portici di via Belzoni, sotto i balconi della ragazza di qualcuno di noi, nelle uscite tra scout anche se a ranghi ridotti. Durante le ferie in montagna a Dobbiaco, nell’osteria della Gutmann, memorabili confronti con i ragazzi locali, con i loro canti tirolesi. In albergo, assai numerosi, ogni sera era una festa, avevamo il cuore delle ragazze ai nostri piedi. Alla fine del nostro soggiorno il direttore dell’albergo, un prete dinamico, ci invitò a fermarci ancora una settimana gratis per tenere vivace l’ambiente. Ce lo chiese per favore! Noi facemmo i salti di gioia. Nei rifugi di montagna durante le escursioni ogni volta era un successo, ci offrivano la graspeta e altro.
Perfino in fabbrica, in Zedapa, per una insolita coincidenza, tre di noi, Luciano, Alfredo e io, per un periodo lavorammo nello stesso reparto a contatto di gomito, uno al tornio, uno al trapano, l’altro al banco e, nonostante il rumore assordante delle presse, cantavamo. Il posto di lavoro era prospiciente ai fine- stroni, il direttore dello stabilimento transitando all’esterno sentì l’armonia. Entrò e ci trovò a cantare senza che ci fossimo accorti della sua presenza, lavoravamo con attenzione. Ci fece un sorriso.
Ovunque fossimo, anche solo in tre o addirittura in due, cantavamo. Con il gruppo al completo abbiamo cantato in pubblico, sia pure per un pubblico particolare: all’ospedale sanatoriale, che si trovava sopra il Bastione delle mura di cinta della città, nell’area dell’attuale Ospedale Giustinianeo di Padova; era adibito alla cura della tubercolosi, malattia presente ancora pesantemente, la penicillina non era diffusa. In questi luoghi, a dimostrazione di quanto fosse temuto il contagio al di là della reale pericolosità, ci si teneva a debita distanza. Alla fine della serata ci veniva offerto un piccolo rinfresco che accettavamo con i denti sospesi per il timore del contagio nonostante ci fosse assicurato l’inesistenza del pericolo. Frequentavamo anche l’ospedale di via Gattamelata, allora convalescenziario TBC che incuteva gli stessi timori. Altre platee per il coro furono le parrocchie di città e periferia.
Il gruppo, cresciuto d’età, si sfaldò: il servizio militare, il lavoro, il matrimonio, ma non perse però la memoria. Passarono alcuni anni, ognuno chiuso nel suo mondo fatto di lavoro, ma molto di più per i figli piccoli, fu la generazione del boom economico, i figli erano spesso quattro per famiglia, non restava certo tempo per il “tempo libero”.
La situazione si sbloccò con l’assestamento nel lavoro, i figli grandicelli, facendo in modo di ritrovarci in particolare per le ferie in montagna e per diversi anni si formò un gruppo di una cinquantina di persone che consentirono la ricostituzione del coro coinvolgendo anche le famiglie. Furono giorni felici.
Un solo esempio, che ne ricalca tanti altri. Villeggiavamo a Padola in Val Comelico, avevamo almeno dodici appartamenti, colonizzando quel piccolo paesetto. Dopo cena tutti nella piccola piazza sui gradini della chiesa a cantare attraendo i paesani e i villeggianti e trasformando ogni serata in una sagra.
Toni Schiavon, “Mi sono sbottonato!” libro primo, pag. 127