La caduta dalla finestra
Sono nato in via Goldoni, in casa di Toni Franco. Ricordo che l’entrata dava sull’androne che attraversava tutta la casa consentendo l’uscita al cortile interno e all’orto. A una ventina di metri c’era il fossato. Dirò subito del fossato: avrò avuto tre-cinque anni quando Erasmo, amico di mio padre, impiegato in Comune all’ufficio demografico, arrivò in bicicletta imbracciando un fucile da caccia. Ho avuto una forte impressione nel vedere il fucile, la cartucciera a tracolla e un vestito di velluto color cachi. Parlò con papà e stavano per andarsene, non ero d’accordo, volevo andare anche io. Facendo un salto attraversarono il fosso mentre per me era invalicabile, mi gettai a terra piangendo e provai perfino a entrare nell’acqua, papà tornò e mi riportò in cucina da mia madre. Ero arrabbiato.
Un avvenimento storico è legato a quel fossato: il 16 dicembre del 1943, du- rante il primo bombardamento aereo su Padova da parte degli alleati, una bomba cadde proprio nel punto del fosso che la famiglia Franco utilizzava per ripararsi quando suonava la sirena dall’allarme aereo. Morirono padre, madre e figlia, i due fratelli erano uno al fronte italiano a Tobruk in Libia, l’altro in Croazia. Dimenticavo di dire che la casa era vicina alla Fiera Campionaria e a ridosso dei binari del treno della stazione di Padova, quindi facile bersaglio degli aerei.
La casa di via Goldoni
Descrivo l’interno della casa: appena entrati sulla sinistra c’era la cucina della famiglia Franco, quella distrutta dalla bomba, e sempre sulla sinistra altre due porte verso le loro stanze da letto. Sulla destra altre tre porte: nella prima e nella seconda stanza abitava Toni Franco, che non era della famiglia di cui ho detto prima, e la terza porta dava sulla mia cucina. La o le camere, non ricordo bene, erano al piano superiore, da cui si accedeva con una scala di ferro dall’androne che dava su un ballatoio che correva per tutta la lunghezza dello stesso.
Vedo le scintille
Una sera, era già buio, i balconi erano chiusi, così pure le finestre. La lampada a petrolio illuminava, non molto, la cucina; mia madre stava preparando la cena, mescolando la polenta nella caliera di rame posata sopra la cucina economica a legna. Dissi a mia mamma che mi scappava la pipì e lei mi rispose di aspettare un po’ “che svuoto la polenta e dopo ti porto fuori”. Il gabinetto era un gabbiotto di legno all’esterno vicino al fosso. Aspettai un po’, però a un certo punto dissi che non potevo aspettare più, così lei aprì finestra e balcone e mi pose sopra il davanzale, mi tolse le braghette dicendomi di fare pipì. Fuori pioveva e c’era vento, mi bagnai anche per la pioggia, quando una ventata chiuse con forza uno dei due sportelli del balcone che mi sbatté addosso, facendomi cadere all’indietro sul pavimento di cemento della cucina. Battei la testa e vidi una miriade di scintille, come quelle che si sprigionano al bruciare della legna smuovendo i tizzoni, e sentii un gran dolore, dopo di che non ricordo più nulla né mia madre me ne ha mai parlato.
Farsi la barba
Appesa alla maniglia di quella finestra c’era una correggia di cuoio, larga 5 cm, che serviva a mio padre per affilare la lametta da barba. La lametta aveva due lati taglienti e veniva montata sulla ‘macchinetta da barba’. Questa era costituita da un manico che portava un guscio leggermente curvato, sopra di questo veniva appoggiata la lametta, sopra la lametta veniva appoggiato un secondo guscio curvato che avrebbe bloccato la lametta tramite una vite che rendeva il sistema solidale al manico.
Per affilare la lametta mio padre strusciava il filo della lametta, con maestria, sulla correggia di cuoio, senza staccare la stessa dalla finestra. Per farsi la barba aveva una scodelletta con dentro del sapone, il pennello lo intingeva in un pentolino di acqua calda preparato da mia mamma e quindi lo sfregava sul sapone per ottenere la schiuma che spalmava sulle guance, quindi con la macchinetta si radeva una prima volta. Rimetteva sul viso altra schiuma e si radeva, questa volta in contropelo per accorciare al massimo i peli. Ogni volta si faceva dei taglietti e naturalmente brontolava. Io ero incantato a guardare tutta l’operazione.
Da adulto non ho vissuto le stesse peripezie perché la mia barba è morbida come la peluria di un pulcino. Mia moglie si arrabbiava perché non facevo come i veri uomini, che adoperavano l’apposita schiuma da barba, me la comprò più volte ma io non la adoperavo in quanto spalmavo e spalmo le guance con un po’ di sapone e mi è più che sufficiente. Molto raramente mi taglio.
Di nuovo scintille!
Qualche anno più tardi, forse a otto-dieci anni, ero in campagna durante le vacanze scolastiche. Stavamo sull’aia, sulla parte selciata, a girare il grano da poco trebbiato perché si asciugasse, eravamo sotto il sole e si sudava. A un certo punto dissi: “Vado a bere” e partii di corsa per andare al pozzo, girai attorno alla casa arrivando nelle vicinanze dello stesso, per terra era bagnato e scivolai in avanti battendo con la fronte sul bordo di marmo della vera. Il botto fu tremendo e vidi le stesse scintille e provai lo stesso dolore della ca- duta dalla finestra, con in più un fiume di sangue che sgorgava dalla fronte lacerata. Anche in questo caso non ricordo nient’altro, salvo la cicatrice che ancora oggi si intravede.
Toni Schiavon, “Mi sono sbottonato!”, libro primo, pag. 16