Oggi mi sono imposto di non guardare fuori dalle finestre/osservatorio. È tutto già visto ed è sgradevole non rilevare novità. Sto aspettando che arrivi il giornale per avere conferma della tenue discesa dei contagiati data dalla televisione ieri era. La fiammella della speranza si alza un po’.
Pensieri sparsi. Stanotte, le notti sono lunghe dalle 21.30 alle 8, il sonno non può coprirle tutte, molte ore di lettura, alcune a viaggiare nei ricordi. Nello studio qua e là sono appese cose insolite: una piccola, vecchia e quanto mai rudimentale bilancina di precisione col metodo comparativo (un pezzetto di piombo) per pesare le dosi di oppio, dalla Cambogia. Lì vicino la faccia ridente di un bronzetto, dal Tamil Nadu, raffigurante il Dio sole. Un ventaglio di penne di pavone, Bombay. Il piccolo dipinto di una piccola chiesina slovacca in legno. Una bottiglietta, mai aperta, di grappa di riso imbevibile, Laos, prodotta clandestinamente nel folto della giungla. Un timbro consunto per stampare figure colorate sulle stoffe per i sari indiani, Hydarabad. E via dicendo.
Sempre navigando nel dormiveglia dentro uno scatolone di reperti, mi torna in mente di aver raccolto, in realtà sarebbe da ritenersi un furto, una decina di tessere di un mosaico, in via di sgretolamento, a Paestum, era il 1953. Me le portai in giro per tutto il servizio militare, quindi a casa in una scatola da scarpe, finché si sono perse. A sentirmele vicine mi sembrava di vivere al tempo della loro messa in opera.
Quando ho cominciato a viaggiare, negli anni ’90-2000, sono stato più volte ammaliato dalla tentazione di rubare: Marocco, India, Laos, Cambogia, luoghi dove tutto è allo sfascio, vuoi per la natura che tutto fa decomporre, vuoi per l’abbandono.
Questo l’ho già scritto altrove.